L'ultima ruota del carro - Trama

 

Commedia dolce e amara dove piccola e grande storia si sfiorano. Il protagonista è un uomo semplice, che segue le proprie ambizioni con integrità e coerenza, senza mai perdere i valori veri della vita. Le sue vicende personali si intrecciano indissolubilmente con episodi cruciali degli ultimi 40 anni della storia d’Italia raccontandoci - con sguardo sempre attento ed ironico - dei vizi e delle virtù del nostro Paese e di noi.

È un film di Giovanni Veronesi, 2012. Durata 113 min.

 

 

Scheda MyMovies

 

Ernesto Fioretti, figlio di tappezziere romano, tifoso della Roma, bambino, poi ragazzo, poi uomo e infine anziano per nulla diverso da qualsiasi altro italiano della sua età, attraversa 30 anni di storia del paese tra fatti personali e sociali: dominio e fine dei socialisti, ascesa berlusconiana, sogni di gloria di amici che non disdegnano di sporcarsi le mani o rifiutano di lavorare, amore sincero per la compagna di una vita e inevitabili malattie.
Per il suo film più audace, dotato di maggiori aspirazioni e nettamente più riuscito, Giovanni Veronesi è partito dal più casuale, umano e popolare degli spunti: la vera vita di Ernesto Fioretti (che appare brevemente nel ruolo del sacrestano), autista suo e di molti altri registi e attori del cinema italiano. Fioretti non ha avuto un'esistenza particolarmente eccezionale (questo è parte della forza della trama), come tutti ha attraversato le diverse fasi della storia italiana, come pochi (o almeno così vuole raccontare il film) ha vissuto gli alti e bassi della propria vita in coincidenza con gli alti e bassi del paese.

Di certo nel raccontare questa vita L'ultima ruota del carro procede con trovate ed espedienti di grana grossa, non vuole mai fermarsi sulle sottigliezze nè è interessato a una ricerca intellettuale sulle molte fasi politiche ed economiche che scandiscono i tempi del racconto (assieme alle partite dell'Italia e le formazioni della Roma, a ribadire una prospettiva assolutamente anti intellettuale). Non vuole operare nemmeno ponderate valutazioni sociologiche nè tantomeno catturare lo "spirito italiano", l'interesse degli autori appare essere umano, un amore sconfinato per gli ultimi e la loro ingenua semplicità, il sentimento principe della tradizione della commedia italiana (specie di quella più ambiziosa) che, cosa rara, stavolta appare sincero e coinvolgente. I semplicismi che da sempre vediamo nel cinema di Veronesi stavolta sono supportati da uno sguardo affettuoso e innamorato delle piccole cose sconosciuto ai precedenti film del regista.
Animato da una straordinaria energia vitale che scaturisce principalmente dal corpo energetico di Elio Germano, protagonista assoluto non tanto per ruolo o minutaggio quanto per capacità di far orbitare intorno a sè qualsiasi altro personaggio e condurre anche le scene più ordinarie con un afflato emotivo non comune, L'ultima ruota del carro vuole fare un racconto sentimentale più che cronachistico del periodo preso in esame, punteggia la trama con riferimenti precisi (dal ritrovamento del cadavere di Moro alle monetine lanciate a Craxi) e cerca di portare in scena in ogni istante ciò che tutto questo potesse significare per le persone più che i fatti. Questo tratto (il più "hollywoodiano" del film) è senza dubbio il meno riuscito, populista e non popolare, contro tutti i potenti in quanto tali e a favore della povera brava gente a prescindere e innamorato genericamente della grande arte simboleggiata dallo stereotipico pittore pop (sono più feroci, calzanti e stimolanti da questo punto di vista i molti altri film italiani che nell'ultimo decennio hanno rielaborato e raccontato gli anni '70, spesso appoggiandosi al corpo esile, perfetto per l'epoca, di Elio Germano). Al contrario quando il riflettore si sposta su Fioretti e il film rivela la sua ossatura di melodramma (non mancano i classici del genere come l'ospedale) le scene si fanno più ariose e anche il punto di vista schiacciato verso il basso, verso cioè le ultime ruote del carro, sembra davvero il migliore, l'unico buono per mettere in scena la vita per come si svolge, nel suo banale essere coinvolgente.

È quindi innegabile che una squadra solo parzialmente rinnovata abbia beneficiato molto al regista e sceneggiatore toscano. Il lavoro del solito Ugo Chiti e di Filippo Bologna (che hanno scritto con Veronesi la storia non senza un occhio ad alcuni punti di forza di C'eravamo tanto amati), la fotografia desaturata di Fabio Cianchetti (molto in linea con la maniera in cui il nostro cinema sta rappresentando quegli anni, tra macchina a mano e focale lunga) e infine il montaggio di Patrizio Marone (un esperto del genere già apprezzatissimo per il ritmo impresso alla serie Romanzo Criminale), mettono in scena l'epopea semplice e priva d'ambizioni di Ernesto Fioretti con un afflato sconosciuto ai precedenti film di Veronesi, lasciando emergere quel buono che in passato rimaneva schiacciato da una messa in scena sciatta e svogliata. Non che lo stile del regista non sia comunque riconoscibile ma la nuova veste per un nuovo tipo di storia (mai Veronesi aveva voluto essere così serio con i suoi film) è innegabilmente ben tagliata.

 

Tratto da “Mymovies.it”

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