Guglielmo Pantalei, proprietario di un negozio di articoli religiosi, non si rassegna all'abbandono da parte della moglie dopo 25 anni di matrimonio apparentemente felice. Ma nella sua depressione quotidiana irrompe Luna, giovane "borgatara" romana, che si candida per il ruolo di commessa nel negozio di Guglielmo nonostante il suo aspetto e i suoi modi facciano più pensare alla lap dance che alle navate di una chiesa. Questa benedetta follia strapperà il sessantenne al declino annunciato verso una senilità rinunciataria e mortifera, aiutandolo ad aprire nuove porte al futuro. "Io ci sono", afferma ad un certo punto della storia Carlo Verdone, e i pregi principali del suo 26esimo film da regista, attore e sceneggiatore sono proprio la sua presenza "malincomica" e il suo esporre pubblicamente paure e fantasmi che appartengono alla nostra storia di italiani medi. In 'Benedetta follia' Verdone riversa infatti tutto l'immaginario costruito intorno alla sua persona, condensato nella scena in cui Guglielmo si confronta allo specchio con il proprio sé giovanile, quel sé coatto e tracotante che gli spettatori ricordano benissimo da alcuni precedenti verdoniani: solo Nanni Moretti è altrettanto efficace nel coinvolgerci nella sua autobiografia e nel fare di sé un'icona cinematografica nostrana. Ci sono momenti di autentica poesia, soprattutto nella prima parte, in 'Benedetta follia': ad esempio la narrazione delicata e struggente della solitudine di un uomo al terzo tempo della sua vita, accompagnata dalle note de "La stagione dell'amore" di Franco Battiato che contiene in sé la nostalgia non solo per quel tempo che "non tornerà, non ritornerà più", ma nello specifico per quegli anni Ottanta in cui Verdone e molti altri sono stati giovani e/o convinti di avere il mondo in mano. L'altro pregio di 'Benedetta follia' è l'interazione comica fra Verdone e Ilenia Pastorelli che contrasta piacevolmente l'imbarazzo esistenziale, da sempre cifra espressiva dell'autore, con l'inarginabilità popolana della "ragazza di Tor Tre Teste", alla sua seconda prova di attrice dopo il David di Donatello per ''Lo chiamavano Jeeg Robot''. Il difetto del film è invece la concessione ad un certo tipo di commedia di cassetta che vuole il lieto fine a tutti i costi, che forza le sceneggiature passando sopra a buchi di senso e di stile, che confonde la superficialità con la leggerezza.

Limiti che emergono soprattutto negli ultimi venti minuti del racconto, sostituendo un retrogusto acido alla dolcezza che ci aveva cullati durante tutto il racconto precedente. Persino l'ottimo montaggio (di Pietro Morana) che fino a quel momento era ritmato ma fluido, nelle ultime scene diventa impacciato, anche perché il "passo" della storia ha dovuto interrompersi per fare posto ad un'inutile sequenza di ballo simboleggiante un trip lisergico, inserita dai cosceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti (già autori di 'Jeeg Robot') e coreografata da Luca Tomassini. Peccato, perché fino a lì persino le scene più volgarotte (in primis quella del cellulare al ristorante) avevano funzionato a effetto comico, contrastando quella "mestizia" che fa parte del personaggio Verdone.

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